1946. La guerra è finita, ma molti sono i morti, i feriti, i dispersi. L'Italia è in macerie.
Marisa Cinciari Rodano, nata a Roma nel 1921 - La coda del seggio era lunghissima. Il primo ricordo è questo. La gente andava a votare di prima mattina, e fu bello vedere tanta partecipazione anche femminile, considerato quanto ci eravamo date da fare per spiegare alle donne che era importante andare a votare. Volantini, comizi, manifestazioni, riunioni. E le donne c’erano. Girava voce, dopo i risultati, che molte avevano tradito il marito nell’urna. Le mogli di democristiani, si diceva, avevano votato comunista. E le mogli di comunisti avevano votato democristiano.
Lia Levi, nata a Pisa nel 1931 – Per una famiglia ebrea come la mia, tagliata fuori dalla società per un decennio, il referendum fu un’occasione speciale, emozionante. Mio padre raccomandava a mia madre di non mettere il rossetto perché rischiava di sporcare la scheda e renderla nulla. Fui portata al seggio insieme alle mie sorelle, vestite bene come per andare in chiesa. Mia madre aveva un vestito bello, a pois, e una borsetta con la cerniera di metallo dorato.
Teresa Mattei, nata a Genova nel 1921 – Fu un giorno emozionante per tutte le donne italiane che votarono per la prima volta, e per me. Ero candidata per il PCI nel collegio di Firenze e Pistoia, ma non votai per me stessa. Mi sembrava una cosa vergognosa: sentivo di prendere il posto di chi valeva più di me, di chi era morto per liberare il nostro paese. Votai per Giuseppe Rossi, un operaio diventato intellettuale in galera.
E’ nel 1912 che in Italia viene introdotto il suffragio universale.
“Universale”, si fa per dire. Le donne ne sono escluse.
Ma con la “Grande Guerra” molte donne occupano i posti di lavoro lasciati dagli uomini richiamati al fronte. Escono di casa, diventano importanti.
Finita la guerra, le femministe italiane pensano che ora le donne potranno ottenere il diritto di voto. Si ricomincia a parlare di suffragio femminile.
Per le femministe della prima ora Mussolini è un rivoluzionario e non potrà che sostenere l’emancipazione femminile. Lui lascia che lo credano.
In effetti, arrivato al potere, il 25 novembre 1925 il Duce concede alle donne il voto amministrativo.
Pochi mesi dopo, il 4 febbraio 1926, sostituisce ai sindaci i Podestà, sicché non vota più nessuno, né uomini né donne. In questo, almeno, piena parità tra uomini e donne.
Si respira un’aria nuova alla fine della guerra.
Si ascolta una nuova musica, sull’onda dello swing americano.
E si comincia a vedere, negli anni ´20, un nuovo tipo di donna: gonne corte, capelli alla garçonne, corpo sottile, maggiore libertà di comportamento.
E’ la “maschietta”.
Per i fascisti è la “donna crisi”, una donna che non corrisponde alle tradizioni italiane.
Così il Ministero della Cultura Popolare (29.7.1932):
E’ stato fatto un richiamo a un giornale di Roma per un disegno rappresentante una donna eccessivamente magra. Data la suggestione che tali disegni esercitano sulle donne non magre e la
ripercussione che i dimagramenti forzati hanno nella prolificità e quindi nella efficienza demografica, è bene che tali disegni non compaiano più.
Ma per molte donne modelli da imitare continuano ad essere le dive americane,
le signore eleganti dei manifesti di Marcello Dudovich,
ma anche la ragazza che compare sulle copertine della rivista “Grandi Firme”, formosa, seducente ed emancipata.
La donna che piace al Fascismo è invece la “donna madre”, perché, dice il Duce, l’Italia ha bisogno di figli.
Queste sono le brave madri fasciste:
Al Fascismo piace la famiglia tradizionale, soprattutto quella rurale, espressione dei valori della stirpe italica, fatta di uomini laboriosi e di madri prolifiche.
Piacciono le massaie rurali.
Da “La donna fascista” (1935):
La massaia rurale sa poco di lettere, non legge i romanzi gialli, di rado o mai va al cinema, non sa ballare come i negri e non conosce le seduzioni della moda, ma il suo cuore è semplice e chiaro, conosce la fedeltà al marito, l’unione spirituale e continua con la vita dei figli, la gioia e la fatica del lavoro.
Piacciono meno le mondine, troppo libere ed emancipate.
1927. I padroni delle risaie, in accordo con i sindacati fascisti, decidono di diminuire i salari del 25 per cento. Sono 10mila le mondine che scioperano senza lasciarsi spaventare dalla dura repressione poliziesca. Cento di loro vengono arrestate, una decina condannate a diversi mesi di carcere.
Il fascismo soffoca la voglia femminile di emancipazione, ma, coinvolgendo le donne nei gruppi giovanili fascisti, le spinge fuori casa, le incoraggia a praticare lo sport.
Piace la donna sana e robusta della Gioventù del Littorio. Piace Ondina Valla, che nel 1936 a Berlino conquista l’oro.
In linea con la politica demografica del Fascismo nasce l’ONMI, Opera Nazionale Maternità e Infanzia, per tutelare le donne e i bambini senza famiglia.
Ma si adottano anche misure che possono suscitare qualche perplessità.
Stranamente il numero dei nati continua a diminuire e si ricorre ancora all’aborto clandestino.
Forse perché i figli non si riusciva a mantenerli.
La legislazione fascista ha a cuore l’integrità della famiglia e si preoccupa di tutelarne la moralità. Sicché se una donna viene accusata di adulterio, può essere condannata a due anni di carcere.
E un uomo adultero? Anche lui può essere condannato, ma a un anno e solo se viene colto in flagrante.
E ancora: “chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa all’onore suo o della famiglia” rischia da tre a sette anni, mentre per tutti gli altri omicidi la pena minima è di ventun’anni. E’ il “delitto d’onore”.
Nell’Italia repubblicana verrà eliminato.
Nel 1981!
Quanti sacrifici si chiedono alle donne!
Nel 1935 all’Italia che vuole un Impero e aggredisce l’Etiopia, la Società delle Nazioni infligge le “inique sanzioni”.
“L’Italia farà da sé” rispondono i fascisti. E’ l’autarchia.
Per metter da mangiare in tavola le donne devono far miracoli. Il cibo è razionato e ci si priva di tutto per acquistare al mercato nero. Per fortuna ci sono i surrogati e i libri di ricette, che insegnano a cucinare col poco che c’è.
E poi l’ “oro alla patria”. Il Regime, per affrontare la guerra, raccoglie ogni genere di metalli.
Chiede pure il dono delle fedi d’oro alla Patria, in cambio dà fedi di ferro e alluminio.
Così la rivista “Lei” immagina che una madre italiana parli ai suoi figli:
“la Patria mi ha chiesto: che cosa potete dare per me? E noi le abbiamo risposto: ecco i nostri mariti e i nostri figli, ecco il nostro oro e il nostro amore”.
E la Patria chiederà tanti mariti e tanti figli alle donne italiane.
Alle vedove di guerra darà onorificenze.
E le donne lavoratrici?
Alle donne vengono vietati i lavori più qualificati: non possono insegnare filosofia e storia nelle scuole secondarie, non possono dirigere istituti, non possono far carriera nella pubblica amministrazione.
Per maggiore precauzione alle studentesse vengono raddoppiate le tasse scolastiche.
E nessuna parità fra uomini e donne per lo stesso lavoro, a partire dai salari che vengono fissati per legge alla metà di quelli corrispondenti degli uomini.
Il Regime, peraltro, cerca di allontanare le donne dal lavoro. La donna lavoratrice viene dipinta come immorale e dannosa alla famiglia.
Così si esprime un intellettuale cattolico molto apprezzato:
Deve diventare oggetto di disapprovazione la donna che lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, che in promiscuità con ľ uomo gira per le strade, sui tram, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici (Ferdinando Loffredo, Politica della famiglia, 1938).
Il 5 settembre 1938 si stabilisce una quota massima del 10 per cento di donne nella pubblica amministrazione. Solo due anni dopo, però, il provvedimento del ’38 viene sospeso: con la guerra si ha bisogno del lavoro delle donne.
Le donne ora non fanno solo le impiegate, le insegnanti, le centraliniste; fanno anche le postine, guidano i tram, conducono i trattori. Ricevono i primi stipendi e acquistano una nuova consapevolezza di sé.
Il 10 giugno 1940 l’Italia è entrata in guerra accanto alla Germania nazista. Molti sono entusiasti: la vittoria sembra a portata di mano.
1941. Presto l’’illusione di una guerra breve e vittoriosa svanisce. Arrivano le lettere dal fronte, parlano di freddo, fame, terrore. Chi torna dalla Russia ha visto le atrocità naziste contro gli ebrei. Tornano le bare dei caduti.
Gli italiani, uomini e donne, che, assuefatti al Fascismo, avevano smarrito ogni spirito critico, si ritrovano in una cruda realtà.
Tutto è razionato. Gli acquisti si fanno con la tessera annonaria che garantisce solo un terzo del fabbisogno calorico giornaliero.
In alcune scuole ci sono ragazze che svengono per la fame.
Le donne devono imparare a gestire i conti di casa, a cucinare con poco.
Non si trova più niente ed è un’impresa procurarsi un po’ d’olio, un uovo, del latte.
Si fanno lunghe code davanti ai negozi.
Si ricorre alla borsa nera. Per avere ciò di cui si ha bisogno ci si priva di tutto, il poco oro, le lenzuola del corredo.
Si coltivano gli “orti di guerra”.
Le donne imparano a rammendare, a riadattare gli abiti, a rivoltare i cappotti, ad allungare gli orli.
La moda cambia. Gonne al ginocchio e camicette con maniche corte per risparmiare sulla stoffa, nuovi tessuti come rayon e lanital, suole di sughero e non di cuoio. E poi si può fare a meno del cappello e, in estate, delle calze.
Dal marzo 1942 vengono ridotte le razioni consentite dalla tessera annonaria. Molte madri soffrono la fame per dar da mangiare ai figli.
Marzo 1943. Le operaie delle fabbriche del nord partecipano agli scioperi. Il loro grido è: “Guerra alla guerra!”
Si fugge dalle città bombardate.
Edda, la figlia del Duce, crocerossina in Sicilia, scrive al padre:
“Dopo l’ultima incursione del 9 maggio la popolazione è rimasta sei giorni senza pane. C’è bisogno di medicine, d’indumenti, di mezzi di trasporto per far sfollare questa povera carne da macello. Per ora si dice ancora: Il Duce non lo sa. Ora lo sai”.
In giugno gli Alleati sbarcano in Sicilia. La notte del 25 luglio Mussolini viene messo in minoranza e il Re lo fa arrestare.
L’8 settembre Badoglio, nuovo capo del Governo, comunica l’armistizio, ma all’esercito non arrivano ordini, mentre il Re e il Governo fuggono nel Sud liberato.
Nell’Italia del nord Mussolini fonda la Repubblica Sociale Italiana sotto il controllo dei Tedeschi che lo hanno liberato.
Chi si rifiuta di arruolarsi nell’esercito “repubblichino” e di combattere con i nazisti viene deportato nei campi di lavoro in Germania.
Molti uomini si sottraggono ai rastrellamenti, molti vogliono continuare a combattere, ma contro i fascisti, che hanno portato l’Italia alla rovina, e contro i Tedeschi occupanti.
Nell’esercito del Duce entrano, volontarie, 50mila donne. Sono donne ancora legate al fascino del dittatore, donne che pensano di riscattare l’onore perduto degli italiani “traditori”, donne mosse da spirito di avventura, donne che in qualche modo, per la prima volta, si sentono protagoniste.
I tedeschi occupano le città. A Roma, attorno a Porta San Paolo e alla Piramide Cestia, si combatte in un ultimo tentativo di resistenza.
Per le strade molte sono le donne che portano armi ai combattenti e soccorrono i feriti.
Ventotto di loro sono uccise.
Le violenze dei primi squadristi, la guerra di Spagna, le leggi razziali non erano riuscite ad incrinare la fiducia nel Regime e nel suo capo se non in una minoranza degli italiani. Ora, però, la guerra entra nelle case, le città vengono distrutte dai bombardamenti, un esercito nemico, assetato di vendetta, occupa gran parte dell’Italia. Il paese si sveglia dal suo torpore.
Iniziano i rastrellamenti. Molte donne nascondono i ricercati, che cercano di sottrarsi alla deportazione in Germania o alla leva obbligatoria nella Repubblica di Mussolini.
In settembre, a Milano, nascono i “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai Combattenti per la Libertà”. Avranno anche un loro giornale, “Noi donne”, un giornale clandestino. Chi lo diffonde rischia l’arresto.
I “Gruppi di difesa della donna” sono la prima grande organizzazione femminile aperta alle donne, donne di ogni ceto sociale, di ogni fede religiosa, di ogni partito, disposte a sostenere ed assistere gli antifascisti incarcerati, i partigiani, i rastrellati.
Ma non solo assistenza. Molte donne s’impegnano in attività d’informazione, di collegamento, trasporto di ordini e di armi, sabotaggio, proteste nei luoghi di lavoro.
Quella delle donne è una lotta per la liberazione della patria e per la propria emancipazione.
1944. In gennaio gli Alleati sbarcano ad Anzio, a 40 km. da Roma, ma a Roma arriveranno solo 5 mesi dopo.
Sono mesi d’inferno. Migliaia di morti, paesi in macerie, fame e terrore. Le donne diventano bottino di guerra. 3500 donne tra gli 8 e gli 85 anni vengono stuprate dai battaglioni di nordafricani dell’esercito francese liberatore. 800 sono gli uomini uccisi nel tentativo di difenderle.
Famiglie intere si riversano nella capitale. Fame nera. E’ il momento peggiore della guerra.
7 aprile 1944. Pare che al Mulino Tesei, vicino al Ponte dell’Industria, si faccia il pane bianco per le truppe di occupazione e che ci siano grandi scorte di farina. Donne disperate forzano i cancelli, dieci di loro vengono uccise a colpi di mitra.
Roma città aperta? Roma è occupata dai tedeschi, si rischia il carcere e la deportazione. Si dice che metà Roma nasconda l’altra metà.
Molti imbracciano le armi, compiono attentati. Fra loro anche donne, come Carla Capponi, Lucia Ottobrini, Marisa Musu. Nella Roma città prigioniera, nella Roma dei rastrellamenti e delle camere di tortura, la loro è una scelta sofferta, ma determinata.
Marisa Musu: Io odio la violenza: la nostra violenza, che violenza è stata, era molto semplicemente e fin dal primo momento, l’unica arma per far cessare la violenza ben maggiore dei nazisti e dei repubblichini; se volevamo interrompere e stroncare quella violenza non c’era altra soluzione.
Maggio 1944. Nella Bassa bolognese le mondine scioperano per una settimana. Chiedono un aumento dei miseri salari. Chiedono la fine della guerra.
4 giugno 1944. Roma viene liberata. Il fronte si sposta a nord e al nord c’è un’altra guerra, la guerra di liberazione partigiana, cui anche le donne partecipano.
Molte donne fanno le staffette, diffondono la stampa clandestina, trasportano armi e munizioni, trasmettono ordini.
Tina Anselmi racconta:
Quando ho cominciato a fare la staffetta, andai dal comandante di brigata che mi disse: “Sai che se ti catturano pregherai il cielo che ti ammazzino subito? Perché la strada che seguono è quella delle torture e delle morti.
Le staffette sono preziose. Si muovono in bicicletta, ma anche a piedi, correndo rischi terribili.
Il racconto di Tina Anselmi:
Una volta ho portato una radio trasmittente da Treviso fino a quasi Padova. Portare una radio significava farsi impiccare dopo cinque minuti. Il comandante mi aveva detto: Guarda che la missione che hai oggi è molto pericolosa, quindi non percorrere strade importanti perché per le strade importanti ci sono i soldati tedeschi, ci sono i fascisti. Se ti prendono, sei finita. E allora la mia incoscienza mi ha aiutato perché pensai che il modo più sicuro per arrivare era quello di salire in un camion di tedeschi e chiedere l’autostop. Infatti alzai la mano, questi mi chiesero cosa avevo nella mia valigia che pesava tanto e io dissi che avevo i libri, che ero andata a scuola, che tornavo a casa e loro mi han detto: “Brava, brava”, e mi hanno lasciato passare. Naturalmente mi è rimasta la paura ancora adesso se ci penso.
Il racconto di Giulio Petroni, partigiano (1945):
Annetta è un’oscura, modesta, irriducibile eroina della lotta di liberazione. E’ un’operaia qualificata della “Mirafiori”. Se qualcuno volesse conoscerla vada a Torino alla “Fiat Mirafiori” e ad uno qualsiasi di quei 16.000 operai chieda di Annetta. Gliela sapranno subito indicare. La lotta segreta è finita. Annetta è tornata al suo banco di lavoro.
Arrivava spesso fin lassù, tra noi. Ed era attesa come la fata delle fiabe perché portava ai partigiani le lettere delle famiglie, maglie, calze di lana, sigarette. E portava la stampa, portava documenti e disposizioni per il comando di brigata, portava il saluto, la solidarietà degli operai torinesi.
Una staffetta è anche Irma Bandiera, 29 anni, nome di battaglia “Mimma”. Il 7 agosto 1944, al ritorno da una missione, viene fatta prigioniera dai nazisti. I fascisti che la prendono in consegna la torturano selvaggiamente per una settimana, ma Mimma non svela i nomi dei suoi compagni. Viene accecata e poi uccisa a colpi di pistola. Il suo corpo viene lasciato per un giorno sotto la casa dei suoi genitori come monito per i ribelli.
Prima di morire scrive questa lettera ai propri familiari:
A voi incomberà il dovere di addolcire il dolore di mia madre. Ditele che sono caduta perché quelli che verranno dopo di me possano vivere liberi come l’ho tanto voluto io stessa. Sono morta per attestare che si può amare follemente la vita e insieme accettare una morte necessaria. Caro figlio, non posso scriverti tutto quello che sento, ma quando sarai grande e ti immedesimerai nella mia situazione, allora capirai. Non consideratemi diversamente da un soldato che va sul campo di battaglia [ ... ] Mio caro marito, il mio ultimo respiro sia ancora di ringraziamento al destino, che mi ha concesso di amarti e di vivere sette anni con te. Avrei tanto voluto vederti ancora una volta, ma poiché non mi sono concessi favori, sono troppo fiera per fare una richiesta inutile.
Agosto 1944. Mentre le armate alleate cercano di sfondare la linea gotica, i partigiani liberano interi territori. Nascono le Repubbliche partigiane.
Come la Repubblica della Val d’Ossola. Ha una breve vita, quaranta giorni di libertà. Ma si dà una Costituzione, si costituisce come la Repubblica democratica che si sogna possa un giorno essere l’Italia liberata. E sceglie un ministro donna, Ministro dell’Assistenza, Gisella Floreanini.
Novembre 1944. Il generale Alexander, comandante delle forze alleate, informa i partigiani che le notti in cui si potrà volare saranno poche e che sarà difficile effettuare lanci di armi e rifornimenti di cjbo e di indumenti, perciò li invita a sospendere le operazioni fino alla primavera. Le formazioni partigiane, che non possono nascondersi e sparire per mesi, prive del sostegno alleato, sono così esposte alle rappresaglie nazifasciste.
Comincia un inverno durissimo. E’ il momento più difficile della Resistenza.
I partigiani sono costretti a vivere sui monti dove la neve raggiunge anche i due metri, lontano dagli abitati, a volte senza aver qualcosa da mangiare.
Racconta Angelo Del Boca:
Bussai a una porta. Venne ad aprirmi una donna alta, magra, che mi lasciò passare in silenzio e mentre io mi liberavo dello zaino e delle armi, mi preparò sul tavolo una scodella di latte. Senza una parola mi sedetti e, a testa china, spezzettai un grosso pane nel latte e mangiai avidamente. Fu solo quando ebbi finito che mi accorsi di alcuni bimbi che stavano dall’altra parte del tavolo, sporgendo solo il capo e mi guardavano intensamente. D’improvviso mi venne il dubbio di aver consumato la loro colazione. La loro madre mi accompagnò alla porta consegnandomi il resto del pane che avevo consumato.
Per le donne, come per gli uomini, quando vengono scoperte, non c’è pietà.
Gabriella Degli Esposti, madre di due bambini e in attesa di un terzo, fa della sua casa una base delle formazioni partigiane. Viene catturata e torturata perché si rifiuta di rivelare dove si nasconde il marito. Il suo corpo viene ritrovato senza occhi e con il ventre squarciato.
Iris Versari, 22 anni, ferita ad una gamba in uno scontro a fuoco, si rifugia in una casa colonica, dove viene sorpresa dai nazifascisti. Sa di non potersi muovere, perciò si dà la morte per non ostacolare i suoi compagni e convincerli a fuggire. Tutti vengono catturati ed uccisi. Per spregio i fascisti appendono i cadaveri a Forlì, in piazza Saffi.
Francesca De Giovanni, “Edera”, 21 anni, viene catturata nel marzo 1944 a Bologna in seguito a una delazione. Viene torturata perché riveli informazioni sui suoi compagni, poi condannata a morte. Dovrebbe essere fucilata alla schiena, ma si gira per guardare in faccia i suoi assassini e grida loro: “Tremate. Anche una ragazza vi fa paura!”
Aprile 1945. E’ la fine della guerra, è la Liberazione.
Il I° maggio si celebra la festa del lavoro e quella della liberazione, ma sono poche le donne che sfilano nei cortei partigiani. Ci sono comandanti che dicono: “Non potete sfilare con le armi perché la gente penserà: chissà che cosa avete fatto in montagna!”
Ma non sono finite le sofferenze: fame, miseria, un paese distrutto..
E ci sono anche le vendette. Che non risparmiano le donne, le collaborazioniste, le delatrici, ma anche le donne che hanno la colpa di essersi innamorate del nemico.
2 giugno 1946: si vota per scegliere tra Monarchia e Repubblica; si vota per eleggere l’Assemblea che dovrà dare alla nuova Italia una Costituzione.
Per la prima volta nella storia d’Italia le donne esercitano il diritto di voto: possono eleggere ed essere elette.
Scrive Teresa Mattei, partigiana combattente, comandante di brigata:
Quel voto ce lo siamo conquistate. Nessuna Resistenza sarebbe potuta essere senza le donne. Si dice che furono poche le partigiane, ma non è vero: ogni donna che io ho incontrato in quel periodo era una partigiana. Per aver diviso a metà una patata con chi aveva fame, aver svuotato gli armadi per vestire i disertori, aver rischiato la vita tenendo in soffitta profughi o ebrei. Era quella la vera Resistenza.
Viene eletta al Parlamento Gina Borellini, una delle donne che nelle bande partigiane avevano imbracciato le armi. Era stata catturata col marito, torturata e portata per tre volte davanti al plotone di esecuzione. Rilasciata, non aveva voluto mettersi al sicuro per restare accanto al marito prigioniero e, quando questi viene fucilato, riprende a combattere come capitano di brigata. In un’azione viene ferita gravemente e le viene amputata una gamba.
Sono 21 le donne elette alľ Assemblea che dovrà scrivere la Costituzione della Repubblica Italiana.
Una delle elette è Teresa Mattei, la partigiana Chicchi. Ha solo 25 anni, ma ha vissuto molte esperienze dolorose. Suo fratello, Gianfranco Mattei, ha subito atroci torture nel carcere di via Tasso e, per non parlare, si è tolto la vita. Lei stessa, prigioniera dei nazisti, è stata crudelmente seviziata. Riesce a scappare: le hanno tolto i denti, un rene non le funziona più.
Teresa Mattei ha contribuito a scrivere uno degli articoli più belli della Costituzione della Repubblica Italiana, l’articolo 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
E’ un impegno, un programma da attuare.
Con la nascita della Repubblica, la donna italiana ha iniziato un nuovo cammino.
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a cura di: Annamaria Mangiotti